L’Italia che resiste. Recital su De Gregori. Con Mimmo Locasciulli
30 Gennaio 2016
20:30
ARADEO (Le), "Teatro Domenico Modugno"
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Da un’idea di Alberto Minafra (testi dello spettacolo)

 

Luigi Mariano: voce, piano, armonica e chitarra.
Donato Chiarello: voce narrante
Marcello Zappatore: chitarra
Valentina Marra: violino
Stefano Rielli: contrabbasso

 

Qui video de “La storia“, live al Teatro di Aradeo

 

 

Nella seconda parte della serata:
concerto di MIMMO LOCASCIULLI al pianoforte
con consegna del Premio Civilia al cantautore abruzzese.

 

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LA CRITICA PIÙ BELLA MAI RICEVUTA:
(a cena con Locasciulli)

 

E’ stata la critica più bella che io abbia mai ricevuto, forse, nel mio intero percorso musicale, da quando (a 18 anni) iniziai a strimpellare la tastiera. Me l’ha rivolta a cena a Galatina, tra una chiacchiera e l’altra nel dopo-spettacolo, Mimmo Locasciulli. Avevamo calcato lo stesso palco nella riuscitissima serata organizzata dall’Associazione “Civilia”, al Teatro di Aradeo, il 30 gennaio 2016, in cui sono stato chiamato a suonare (pianoforte e chitarra) e a interpretare le canzoni di De Gregori, coadiuvato da tre musicisti eccezionali, che godono di tutta la mia stima, umana e artistica.
Per l’occasione, ho scelto (convinto) un’interpretazione (vocale e musicale) a profilo basso, discreta, molto rispettosa e piuttosto fedele, non certo per mancanza di iniziativa o di volontà (sebbene sia comunque sempre un rischio stravolgere “troppo” autentici capolavori, perfetti già “di per sé”), ma perché ero inserito all’interno di un recital ben strutturato, scritto da Alberto Minafra: non era il contesto giusto per personalismi egoriferiti e stravolgimenti fuori luogo, tra l’altro lontanissimi dallo spirito di queste iniziative di “Civilia”. Si maneggiava un materiale scottante, canzoni “sacre” con cui tutti siamo cresciuti, accompagnate da un testo teatrale che le raccordava tra loro in un filo conduttore, inserendole profondamente all’interno del nostro tessuto storico, sociale e culturale.
Mi sono sempre considerato poco più che uno strimpellatore, un eterno “studente” di pianoforte, strumento che in me è solo funzionale alla mia figura di cantautore, quindi un pianoforte “senza troppe pretese”: lo suonicchio realmente da soli sei-sette anni, visto che dal 1992 al 2009 i tasti bianchi e neri, per me, erano (ahimè) solo quelli di una vecchia tastiera GEM. Il pianoforte era “il sogno”, ma non me lo potevo permettere. Poi un bel giorno è arrivato in casa e ho potuto iniziare a studiare meglio (e fuori tempo massimo! Ma io sono nato asincrono) le canzoni più famose o quelle che più amavo, nonché (soprattutto) comporre le mie, come è accaduto con tante del nuovo CD. Per grande passione e per senso di responsabilità, studio e mi alleno ogni giorno senza sosta, sempre, con grande costanza. “Sono solo canzonette”, diceva un tale. “E’ solo musica leggera… ma la dobbiamo imparare”, diceva un altro. Quindi cerchiamo di farlo con dignità (ho sempre pensato io) e senso del decoro. Da qui il mio studio, incessante e quotidiano che, grazie alla cocciutaggine, porta a migliorare: prima a casa e poi dal vivo.
Quando a cena mi sono trovato faccia a faccia con Locasciulli, che le canzoni da me suonate a teatro le aveva proprio incise (caratterizzandole molto) nei dischi di De Gregori e portate nei concerti con lui negli anni ’80, mi sono subito chiesto (al di là della mia interpretazione vocale) se il modo in cui avevo eseguito al piano, con enorme rispetto, quelle canzoni fosse stato di suo gradimento. Mi sentivo (a dire il vero) molto “piccolo” davanti alla sua storia personale e alle canzoni “sacre” in questione (La leva calcistica, La storia, San Lorenzo, Generale), quindi avevo più di un pizzico di apprensione. A tutto ciò si aggiungeva il fatto che, come ho detto prima, mi considero un perenne studente di pianoforte: una cosa che, davanti a un maestro, fa temere di essere bacchettati anche sui fondamentali.
Il suo incipit mi ha stupito e lasciato incredulo: “Tutto perfetto, bravo, hai suonato bene: non ho niente da dirti. Me l’hai trattato bene il mio Franceschino”. Questi suoi complimenti li ho vissuti come una piccola Laurea: non me li aspettavo, così plateali. Ero emozionato. Tra l’altro sapevo che il buon Mimmo è sempre stato molto meticoloso, fin troppo attento, uno che non lascia nulla al caso e che non le manda a dire. Mentre suonavo quel piano, ero consapevole che lui avrebbe osservato con attenzione e ascoltato ogni mia nota suonata: riguardava anche la sua vita musicale e io ci stavo entrando eccome, sebbene in punta di piedi.
Tutto perfetto”. Mi pareva incredibile. E infatti… avevo cantato vittoria troppo presto. Te pareva. Mentre Mimmo parlava, infatti, avvertivo netta la sensazione che quello che stava affermando fosse solo la premessa (magari per lui “scontata”, ma per me no!) di un qualcos’altro che stava per arrivare, al galoppo. “…però c’è una cosa che proprio NON SI POTEVA SENTIRE”, conclude con forza, appena indispettito, mentre il mio sorriso (da naturale) mi si trasforma senza volerlo in artificioso. La “sindrome dello studente” mi attanaglia di colpo le budella e il respiro, la gola e i fianchi. “E mo’ che dirà? Mi massacra. Lo so. E’ matematico. Ha solo preso la rincorsa. E’ evidente”, penso tra me e me, presagendo il disastro. In pochi secondi (tipo “scorrimento velocissimo” della propria vita, un attimo prima di morire) cerco di ripercorrere, alla disperata velocità della luce, ogni singola nota da me suonata al piano, per capire quale cazzata sacrilega io avessi mai confezionato. Ma la mia memoria scivola sui vetri del palazzo, tentando invano di fingersi uomo ragno. La fronte mi si aggrotta, nello sforzo mnemonico (sovrumano!) di anticipare il mio illustre interlocutore (rispetto al suo probabile rimbrotto, che immagino spietato), in modo da brandire una più apparente destrezza, o pseudo spavalderia. Tentare almeno di giustificarmi, con un minimo sindacale di sicurezza. Preparato, cazzo: volevo trovarmi preparato. Ma niente. Il vuoto. Non riesco a individuare le eventuali sconcerie commesse durante il “live”. L’uomo ragno precipita giù, senza maschera, mentre gli occhi annaspano nel nulla, cercando appigli immaginari nel cielo. Sono Peter Parker moribondo, precipitato ai piedi di un grattacielo, con Goblin-Mimmo che sta per farmi a pezzettini, senza pietà, inchiodandomi al terreno. Oh Max Pezzali, che canti (impunito), nella mia testa, il tuo tormentone (“Hanno ucciso l’uomo ragno, non si sa neanche il perché…”): quali sgarri ho commesso, santo Iddio? “Avrò fatto qualche sgarro a qualche pezzo di Francé”, mi fischietto in testa, completando il ritornello, per distrarmi dalla fine imminente. Mimmo cala la mannaia: “Durante La leva calcistica... quell’accordo di ‘settima più(settima maggiore, n.d.L.): dai, proprio non si poteva sentire. Non c’entra niente con la canzone”. Lo sforzo mnemonico continua, affannato e angosciato, per cercare di capire dove avessi inserito il particolare svolazzo in questione. Scuoto anche il capo, in difficoltà: “Ma io… non… non credo che…”. Le grotte della mia fronte si fanno sempre più profonde: veri crepacci, alternati a costoni. Spuntano stalagmiti, come neanche a Castellana. Ma… ma… di che parla Mimmo? La mia bocca si apre, guardo in aria, poi guardo lui, poi in aria, aguzzo insensatamente la vista: sembro un ebete. Non capisco, non ricordo. Ripasso in mente tutto ciò che ho suonato. Ripenso a un la maggiore, che non ho assolutamente trasformato in “settima più’ “. E allora… a cosa si riferisce? Cazzo, ho impostato tutta l’esibizione sul basso profilo, volutamente, evitando inutili personalismi e… tac, vengo beccato lo stesso. “Fantozzi, è lei?”: manco il ragionier Ugo, travestito di tutto punto, sarebbe stato sgamato così, in un peccatuccio veniale e ben nascosto tra le righe. Non capisco neanche in quale punto del brano io abbia commesso il fattaccio. Mi sento all’angolo: sta per finirmi, lo sento. E non so neanche il perché.
D’improvviso… l’illuminazione. Il fa maggiore. Sì! E’ lui. Durante il brano c’è (in più punti) un fa maggiore, pieno, che io ho spesso suonato come un “fa settima più”, ossia aggiungendo la nota “mi” all’accordo. Una scelta stilistica, un fronzolo, un vezzo: una delle pochissime licenze che mi son preso rispetto all’originale. Ahiahiahi. “E’ imperdonabile. E grida vendetta”, sentenzia Mimmo, lapidario. A quel punto, secondo copione, mi sarei dovuto afflosciare su me stesso e desiderare di sparire sotto il tavolo, per sempre. Invece accade l’inaspettato: inizio a provare una sensazione piacevole, spiazzante e del tutto sorprendente. Innanzitutto, ormai da qualche minuto, Locasciulli è del tutto a suo agio e lascia uscire un accento abruzzese (di solito tenuto ben nascosto da un parlato un po’ più formale) che mi pare una vera meraviglia, perché genera empatia. Avverto inoltre che Mimmo è anche scherzoso e non vuole affatto esprimere il “giudizio cattivo del maestro rivolto al principiante”. I suoi modi appaiono rilassati e amichevoli, come quelli di chi, con più esperienza, si rivolge a una sorta di collega più giovane, esprimendo la propria opinione su una scelta stilistica che non condivide. Di colpo dunque quella critica mi appare indirettamente come una vera promozione: mi trovo qui con Locasciulli e lui non mi bacchetta sulla tecnica pianistica, sull’eventuale poco dinamismo da tastiera, o sull’uso del pedale o sul tempo. No. Li dà per scontati e acquisiti. Per lui… avevo fatto bene. Lui mi bacchetta su una semplice scelta di gusto. Ecco perché lo ringrazio di questa critica “stilistica” e del rispetto che mi ha dato per tutta la serata, oltre ai tanti aneddoti che custodirò con cura.
Confidenza finale: caro Mimmo, a dirtela tutta e a ripensarci, rifarei quello svolazzo del “fa settima più”, perché mi ci trovo a mio agio in quel brano. Quando si suona, è bello entrare in una canzone “per come si è”, soprattutto se al contempo si riesce a conservare un enorme rispetto generale per la composizione (come credo sempre di fare). E poi diciamocelo: in fondo non è mica da questi particolari che si giudica un cantautore.

Il Quotidiano di Puglia, 29 gennaio 2016